Sono Giuseppe Caputo ed abito a Staten Island, uno dei cinque borghi della città di New York city. Nel 1967 sono emigrato insieme a mio padre per far visita a suo zio, il fratello di mio nonno. Da quel momento ho deciso di voler trascorrere la mia vita lontano dal mio paese.Come tanti palomontesi prima di me, sono partito per riuscire a trovare un lavoro e realizzarmi. Prima che partissi per l’America ho trovato lavoro in Germania insieme a mia sorella, ma ho lavorato anche un po’a Palomonte come falegname. Quando mi sono trasferito a New York avevo 17/18 anni ed inizialmente non me la sono passata bene. Per imparare una lingua che non conoscevo per niente ho dovuto lavorare e seguire dei corsi serali per cercare di adattarmi bene in un ambiente per me del tutto nuovo. Dal giorno della mia partenza sono ritornato per la prima volta Palomonte dopo cinque anni. Dopo aver conosciuto la donna che sarebbe diventata mia moglie, invece, sono ritornato nel mio paese di origine insieme a lei e ai miei figli. Ormai sono trenta anni che torno Palomonte ogni anno, in genere nel mese di Agosto. Un emigrato sente sempre un po’di nostalgia di casa, soprattutto chi conserva ancora dei legami familiari e di amicizia. I miei figli sono venuti con me qualche volta. Hanno visto questo paese e ritengo sia stato un bene per loro: hanno capito che vivere in un paese di campagna non è come vivere in città e che esistono stili di vita differenti. Staten Island, insieme a Bronx, Queens, Manhattan e Brooklyn formano la città di New York, ma è un fatto solo geografico.

Quando mi presento a qualcuno non dico di abitare a Staten Island, ma che sono newyorkese: qui ho trovato quel senso di identità e coesione che non ho mai veramente visto a Palomonte. Lo ricordo benissimo il mio paese negli anni 60/70: l’economia agricola, la vita semplice, la povertà che dava maggiore valore a ciò che si possedeva e che rendeva il legame affettivo e familiare fondamentale. Ci si aiutava sempre in passato. L’altruismo era importante, sia in famiglia che nei confronti di amici e conoscenti. In quel tempo non esisteva un lavoro alla portata di tutti e ben retribuito. C’era la volontà di fare in base alle proprie capacità, ma mancavano le possibilità. Oggi per un giovane non è tanto diverso da allora. Si fatica a trovare un lavoro. In America ho iniziato a lavorare in una piccola fabbrica per il trattamento del ferro insieme a mio zio. La paga era 1,5 dollari all’ora, mentre a Palomonte chi lavorava nelle serre guadagnava circa 500 lire al giorno. La differenza era abissale, ma la vita in America era anche più cara. Ho dovuto fare molti sacrifici ed inizialmente anche più lavori insieme. Nella fabbrica di mio zio ho lavorato per un mese, poi mio cugino mi ha offerto la possibilità di lavorare in una profumeria. Ci sono rimasto per cinque anni, durante i quali ho conosciuto e sposato mia moglie. Successivamente ho trovato impiego nella General Motors per un anno e mezzo, lavoro che sono stato costretto a lasciare a causa della crisi della benzina di quegli anni che portò ad una serie di licenziamenti. Io che ero uno degli ultimi arrivati fui mandato a casa. Alla fine sono riuscito a trovare il lavoro che ho svolto per 31 anni e mezzo fino alla pensione, ovvero il distributore di gas metano. Ho iniziato aggiustando tubi lungo le strade di Staten Island poi, grazie alla costanza e alla forza di volontà, sono diventato caposquadra ed infine ispettore. Bisogna saper fare sacrifici, iniziare dal basso per migliorare la propria condizione. Dopo il matrimonio, ho avuto due figli che adesso sono grandi ed hanno una loro famiglia. Sono un padre e un nonno felice qui a New York. Sono contento di aver potuto e saputo assicurare un futuro dignitoso a me, ma soprattutto ai miei figli. Ricordo bene quando a Palomonte mancava la corrente e non esisteva neppure un acquedotto. L’acqua si raccoglieva nelle poche fontane pubbliche facendo la fila ed aspettando il proprio turno, mentre l’unica fonte luminosa era il fuoco o le lanterne ad olio. Erano tempi difficili ma non avendo conosciuto di meglio per me era normale che fosse così. Prima del terremoto non esisteva l’asfalto, infatti si andava in chiesa a piedi. Le case erano tutte concentrate nel centro storico, mentre oggi sono sparse interamente nelle campagne. Come si fa a far rivivere il centro storico se non ci abita più nessuno? Chi ha potuto è andato via da Palomonte. Chi è rimasto, invece, ha creato le proprie attività lontano dal nucleo originario del paese, così è iniziata la divisione, tanto territoriale quanto affettiva. Le tre frazioni principali sembrano tre paesi diversi. Oggi è difficile fare grandi opere a Palomonte: mancano una piazza, marciapiedi, un’efficace regolazione del traffico. La gente qui vuole la pulizia, l’ordine, quella serie di servizi essenziali e quotidiani che ogni cittadino ha il diritto di vedere soddisfatti. Sono sicuro che insieme ai cittadini e con la collaborazione dell’amministrazione comunale, le cose possono cambiare e il paese migliorare. Bisogna modificare però il comune modo di pensare. Un emigrato che ha fatto esperienza all’estero si accorge del brutto di questo paese e spesso si sente a disagio per il conflitto che si crea tra modi di pensare e di agire diversi fra chi è andato via e chi è rimasto. Sarebbe bello creare delle iniziative rivolte a tutti coloro che sono andati via da Palomonte. Questo li farebbe sentire abitanti del paese e non stranieri in patria, si sentirebbero benvoluti e si darebbero anch’essi da fare per il bene della loro terra. Io sono un americano, ma non smetto di sentirmi anche un palomontese per tutto ciò che mi lega a quella che, ancora oggi, continuo a considerare la mia vera casa.

A cura di Giuseppe Caputo

 

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