Tito e la “mentalità di ritornare”
Faccio parte di una famiglia di cinque figli, tre uomini e due donne. Io, Mattia Marino (per tutti Tito) e uno dei miei due fratelli possiamo considerarci emigrati, lui perché da ragazzo emigrò in America, io perché a 16 anni decisi di partire per la Germania. Come tante storie di gente di Palomonte, anche io partii perché qui c’era la miseria, la fame. Da giovane iniziai a lavorare come falegname, uno dei lavori che imparai pian piano a svolgere sin da bambino. La paga era praticamente nulla, io non ero assicurato e non mi venivano versati neanche dei contributi per il lavoro svolto. Sarebbe scorretto dire che in questo paese si viveva bene nel modo e nel senso in cui può dirlo un giovane d’oggi, al massimo si sopravviveva, cercando di guadagnare quel poco che poteva garantire una vita dignitosa. Scocciato dal fatto di lavorare gratis per qualcun altro decisi, comunicandolo anche a mio padre, che avrei lavorato da qualche altra parte. Trovai lavoro a Serre, 200 lire al giorno pasto e pernottamento compreso ma si lavorava tutta la settimana fino alla Domenica pomeriggio. Già prima di iniziare a lavorare lì, dove rimasi per due mesi, un amico di famiglia mi aveva fatto una proposta: andare a lavorare in Germania in una fabbrica di orologi. Decisi di partire. Sapevo che sarei stato lontano da casa, ma lo stile di vita era migliore, il lavoro era buono, dunque presi coraggio e partii. Giunsi a Donaueshingen, sede del birrificio Fürstenberg, ed iniziai ad aggiustare orologi. Poco dopo cominciai a fare il falegname a Villingen-Schwenningen, a metà strada fra Zurigo e Stoccarda, dove abito ancora adesso. Infine, per circa 35 anni ho fatto il taxista, lavoro che mi ha consentito di comprare una Mercedes con cui ritornavo nel mio paese d’origine ogni volta che ero in ferie.
Ho dei ricordi nitidi di Palomonte, del paese prima che partissi. Ricordo, per esempio, che il centro storico non era per niente popoloso, che alcune persone risiedevano nella zona di San Cosma e Damiano ma la gran parte dei cittadini, contadini, risiedeva in campagna, un po’ come oggi. Nel tempo, invece, anche il centro storico si popolò. Ciò che spingeva la gente verso le campagne era il bisogno di ricavare qualcosa da mangiare dalla terra. C’era gente che mangiava minestra senza olio e senza sale. Non c’erano i soldi nemmeno per comprare lo zucchero, quasi niente. Insomma, più che la miseria in sé era il bisogno di allontanare la paura della miseria che mi ha spinto ad emigrare in Germania appena sedicenne. Lì ho trovato lavoro e lì mi sono sposato con una ragazza tedesca. Ho avuto tre figli, due ragazze ed un ragazzo. Da piccolo li ho sempre portati a Palomonte, sono cresciuti un po’ qui anche loro, anche se adesso non tornano di frequente quanto me. Sono un po’ italiani e un po’ tedeschi ed è un bene secondo me. Quando sono venuto in Germania gli italiani non erano ben visti, non solo perché praticamente non conoscevano bene nessun mestiere, per cui venivano licenziati dopo poche settimane ma anche alcuni di loro non erano proprio educati. Mi colpivano sempre le scritte davanti a qualche bar in cui si diceva di preferire nel locale la presenza dei cani piuttosto che quella degli italiani. Le nuove generazioni dovrebbero imparare da questo ed i miei figli, italo-tedeschi, hanno imparato bene dalla mia storia e da quella degli emigrati italiani.
Il centro storico di Palomonte, da paese poco popolato com’era, è rimasto identico anche, anzi soprattutto, dopo il terremoto del 1980. Tutti si sono spostati a Valle, dove poi sono sorti i prefabbricati. Dopo il sisma c’era un certo movimento, ci si vedeva spesso al bar o in piazza, i ragazzi giocavano a pallone e spesso si facevano lunghe processioni. Quando torno, oggi, ritrovo un paese diverso. Certo, le condizioni di vita sono migliorate tantissimo, ma prima ci si vedeva, si chiacchierava, si stava insieme. Oggi i tempi sono cambiati, il paese è cambiato. Qualche conflitto c’è sempre stato qui a Palomonte, rivalità fra quelli di sopra (centro storico) e quelli di giù (Bivio), ma io ho sempre pensato fossero più delle ragazzate, cose di poco conto, più che grandi problemi sociali. Una grande coesione non c’è mai stata, è vero, ma non credo neanche che questo paese sia diviso, non più di altri paesi con diverse frazioni. Fosse dipeso da me, divisioni o meno, non me ne sarei mai andato e se avessi trovato qui un lavoro serio e dignitoso ne sarei stato lieto. Persino mia moglie sarebbe stata contenta di trasferirsi qui a Palomonte. Purtroppo non c’è stata la possibilità, anche perché in Germania avevo trovato stabilità: una moglie, dei figli, un lavoro sicuro. Palomonte ha bisogno sicuramente di nuove strutture, una piazza, di essere ripensato nel suo complesso. Non so come diventerà questo paese. So, però, che ha bisogno di qualcuno che se ne prenda cura. Io me ne sono andato sempre con l’idea di ritornare. Non sono riuscito a farlo in maniera permanente, ma sono convinto che tornerò sempre, anche solo per i ricordi che mi legano alla mia terra.
A cura di Giuseppe Caputo