Sono un giudice di esecuzione penale nel dipartimento giudiziario di Lomas de Zamora, città argentina della provincia di Buenos Aires. Il mio compito è quello di eseguire la condanna, controllare che la presenza in carcere di un detenuto sia conforme ai diritti umani e, infine, stabilire se togliere o meno la libertà condizionale. Mi sono laureato in giurisprudenza nel 1974 e ho esercitato la funzione di avvocato fino al 2004/2005, anno in cui ho iniziato a svolgere funzioni di sovrintendenza nel servizio penitenziario forense, istituzione che si occupa di garantire il corretto funzionamento e la regolarità delle 54 carceri di Buenos Aires. Nel 2009, dopo aver partecipato ad un concorso, sono diventato giudice di esecuzione penale.

Sono un emigrato di seconda generazione che ha vissuto la propria migrazione in modo singolare: quando mi sono trasferito in Argentina con i miei genitori io non ero ancora nato. Ero sul punto di nascere perché mia madre era incinta di sei mesi quando decise, nel Settembre del 1948, di emigrare insieme a mio padre, avendo in Argentina i propri genitori e riponendo in un luogo nuovo e sconosciuto grande fiducia, tuttavia i miei piedi non hanno toccato terra palomontese. Infatti sono argentino, anche se la legge italiana prevede che io possa avere la doppia cittadinanza. Mia madre non era originaria di Palomonte ma di San Gregorio, quindi la mia discendenza palomontese deriva da mio padre, Angelomaria Valitutto, di Perrazze. I miei genitori sono partiti non tanto per bisogno, anche perché la famiglia Valitutto non aveva problemi economici, ma piuttosto perché in Argentina mia madre aveva i suoi familiari, sua madre, sua sorella e suo fratello. Mio padre, molto conservatore, probabilmente non sarebbe neanche partito se non fosse stato per la morte di mia sorella, scomparsa quando aveva 11 anni, e per la cecità di mio fratello. I parenti di mia madre insistevano affinché tutta la famiglia Valitutto si recasse in Argentina. Lì c’erano ospedali con medici rinomati e la speranza era quella di restituire la vista a mio fratello, poi di allontanarsi dal proprio paese ed anche un po’ dal dolore. All’inizio è stato difficile per mio padre. Tante volte è stato sul punto di tornare a casa, ma ormai aveva venduto quasi tutto ciò che aveva a Palomonte, quindi non tornò mai definitivamente in Italia. L’ultima volta che mio padre ha rivisto Palomonte è stato nell’estate del 1980, qualche mese prima del terremoto. Io, invece, prima di adesso ci sono venuto solo a vent’anni insieme a mia madre, per poi ritornarci una seconda volta oggi. Sono venuto a Palomonte soprattutto per mia figlia, che ho avuto da un secondo matrimonio e che ora ha 11 anni. Volevo che conoscesse la sua famiglia e la casa del nonno. È ancora piccola e avrà tutto il tempo per ritornare quando vorrà. Sono tranquillo del fatto che qui troverà sempre ospitalità. Mi piace molto l’Italia e la cultura italiana, infatti mia figlia studia italiano a La Plata, capitale dell’Argentina, tanto quanto lo spagnolo.

Quando sono venuto a Palomonte per la prima volta ci sono stato poco. Il più dei giorni mi spostavo visitando città come Salerno o Napoli. Il paese è radicalmente cambiato da come lo ricordo io, ma anche da come me lo raccontavano i miei genitori. Le case sono quasi residenziali e quello che noto è che non c’è gente per le strade. In Argentina la gente sta poco in casa, infatti quasi tutti la utilizzano solo per mangiare e dormire, poi si trascorre la maggior parte del tempo fuori. Quando ritorno a La Plata, mio paese di origine, lungo la strada vengo salutato da tutti. Lo stile di vita lo prevede e a me piace perché mi fa sentire a casa.

Uno dei più importanti scrittori argentini, Ernesto Sabato, figlio di immigrati italiani originari della Calabria, diceva che la situazione in cui si viene a trovare un migrante che parte è come una zona grigia, simile alla morte. Chi emigra in qualche modo muore ed un tempo moriva in un modo particolare: poiché i mezzi di comunicazione era scarsi e gli spostamenti difficili, spesso non si aveva notizia di un proprio familiare per mesi. Andarsene equivaleva in un certo senso a scomparire, senza sapere nulla della propria famiglia ed impossibilitati a dare notizie di sé in breve tempo. Oggi le cose non sono più così, ci si sposta con estrema facilità e si rimane in contatto con chiunque grazie ai telefonini. La zona grigia, come la chiamava Ernesto Sabato, oggi per un migrante è meno grigia e meno simile alla morte. Un saluto a tutti i palomontesi.

A cura di Giuseppe Caputo

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