Sono partita nel 1970 per l’America, quando avevo solo 16 anni. È stato l’atto di richiamo di mio zio, che era partito qualche anno prima, a far sì che anche io lo raggiungessi a New York insieme a mio padre e mio fratello. Poco dopo di me, dopo circa un anno, sono arrivate anche mia madre, mia sorella e l’altro mio fratello. Essendomi trasferita in un paese diverso, ho dovuto prima acquisire dimestichezza con la lingua, poi trovarmi un lavoro. In principio ho lavorato in una lavanderia del posto, turno di notte, in seguito in un cravattificio, dove sono rimasta per quasi 30 anni. È stata, quest’ultima, la professione della mia vita ed è stato proprio attraverso il lavoro, o meglio, le pause di lavoro, che ho potuto imparare l’inglese. I miei colleghi mi hanno insegnato le prime parole in lingua e sono stati, lo dico davvero, buoni maestri in tempi non facili.
Sono partita spinta dalla voglia di volere un futuro migliore e, non appena si è presentata l’occasione, non ho esitato e mi sono, così si dice in Italia, “buttata”. Non è stata una decisione presa a cuor leggero, tuttavia in America avevo dei punti di riferimento e questo mi ha facilitata molto nella partenza. Se fossi rimasta a Palomonte, sono sicura che qualcosa avrei fatto, un lavoro lo avrei trovato e sarei comunque stata bene, ma le possibilità che la vita ti offre devono essere colte subito o il rischio è quello di pentirsi.
Avendo vissuto a Palomonte per i primi 15 anni della mia vita, tutti i miei ricordi sono legati all’infanzia e all’adolescenza. Mi ricordo che insieme ai nostri vicini di casa, abitanti della zona, riunivamo tutte le nostre pecore nel cosiddetto “iazz” per la mungitura. Terminata la mungitura, a turno, ogni famiglia portava a casa tutto il latte raccolto per preparare il formaggio. È un bel ricordo che ho, inoltre mi piacevano molto le pratiche tipiche della campagna, così come amavo molto l’ambiente campestre in generale. Se lo raccontassi ad un giovane di oggi forse riderebbe di questo, ma un tempo era la normalità e ci si divertiva falciando il fieno o raccogliendo l’uva. La vita era dura, ma non per questo brutta. Guardo con rammarico a quel periodo e rivivrei con tanto piacere quei momenti.
Sono ritornata per la prima volta a Palomonte a 5 anni dalla partenza, ma sono tornata da moglie: in America mi sono sposata nel 1973, e sempre lì ho conosciuto quello che sarebbe diventato mio marito, non americano ma originario di Avellino, in visita dalla zia americana.
Insieme abbiamo tentato di ritornare in Italia per restare. Mio marito, verso la fine degli anni 70, ha comprato il bar dello zio a Milano. Lì ho resistito per 6 mesi. Troppo diverso lo stile di vita ma, soprattutto, troppa difficoltà a risolvere i problemi quotidiani.
In America la burocrazia è molto meno opprimente che in Italia: se mi reco presso qualsiasi ufficio pubblico, il mio problema viene risolto in men che non si dica. Qui in Italia, invece, si tende a posticipare. Frasi come “Torna domani” o “Ritorna la settimana prossima” sono cose che ho sentito spesso. In questo senso è molto più facile vivere in America!
Nonostante questo amo molto l’Italia ed amo ancor di più Palomonte. Mi sono cari il cielo azzurro d’estate e le foglie d’autunno, le feste di paese e i riti religiosi, i momenti vissuti e quelli che vivrò nel mio paese insieme alla mia famiglia.
Voglio lasciare un messaggio ai palomontesi: amate il vostro paese e coltivate per lui una sincera affezione. È stata mia mamma, forse più di tutti, a trasmettermi l’amore per Palomonte. Lei, che non ha vissuto mai una vita del tutto serena per motivi di salute, quando si è accorta che la sua vita volgeva al termine, ha deciso di trascorrere i suoi ultimi mesi proprio a Palomonte. Le nostre insistenze, i rischi che correva e il fatto che tornasse da sola, non l’hanno fermata. È morta a Palmonte ed ha così, forse, esaudito uno dei desideri che ha chi lascia la propria terra: nella fine ritornare al principio. Lo stesso senso di nostalgia per il paese d’origine lo provo anche io. Si può dimenticare, mi chiedo, il posto da cui si è venuti?
A cura di Giuseppe Caputo